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La Recensione di Maria Cristina Mauceri (cassamarca lecturer - university of sydney)

In una delle prime pagine del libro Il mio nome è Regina (Marsilio, 2010) è descritto un pesce enorme portato in dono al padre della protagonista, uomo influente nell'Alto Volta, oggi Burkina Faso. Il pesce, che si agita negli ultimi spasimi prima di morire, viene poi fatto a pezzi: "il tavolo si riempì di sangue e sporcizia mentre tutti, lì dentro, sembravano assorti in quello che pareva un sacrificio rituale". Questa immagine del pesce squartato, come osserva la narratrice, è il simbolo della sua vita e di quella della sua famiglia.

In questo romanzo autobiografico Marie Reine Toe, scrittrice, regista e attrice, proveniente dal Burkina Faso, racconta la sua storia dall'infanzia e prima adolescenza in Africa e l'arrivo in Italia dove vive dal 1991. Marie Reine ha avuto un esordio fortunato nella vita: il padre, che aveva studiato a Firenze, aveva fatto una veloce carriera diplomatica che lo aveva portato a diventare ambasciatore in Cina dove si è era recato con la famiglia, fino a quando vicende personali, colpi di stato e rivoluzioni hanno segnato il giro di fortuna della sua carriera. L'uomo perde il posto ed è la madre di Marie Reine, donna dinamica ed emancipata, a mantenere tutti quanti. Pagine intense descrivono la rivoluzione nel Burkina Faso, la paura, l'incertezza e le difficoltà che da quel momento incombono sulla vita di Marie Reine e dei suoi familiari.
In seguito, Marie Reine si trasferisce in Italia grazie all'aiuto di un ex-compagno di studi del padre che la porta a Pescara per darle la possibilità di studiare. La famiglia 'adottiva' si rivela però inadatta ad accoglierla. Marie Reine fugge e finisce per trovar rifugio tra persone che lavorano in discoteca dove viene ingaggiata come cubista. La giovane sfrutta la sua avvenenza e l'attrazione dell'esotico per sopravvivere e trova nel gruppo che ruota intorno alla discoteca quel senso di appartenenza che, già in patria, le era venuto a mancare. Non è facile uscire dal giro del lavoro estenuante nelle discoteche, e dall'uso di droghe con cui aveva cercato di dimenticare il dolore per la morte del padre e di trovare le energie per affrontare un ritmo di vita faticoso. Con la speranza di un cambiamento si trasferisce dalla provincia abruzzese a Genova, città scelta per la forte presenza di migranti provenienti dall'Africa, ma in questa città la giovane conosce la solitudine e deve badare a se stessa. Per sopravvivere si esibisce come spoglirellista in locali ambigui, ma lei, consapevole della sua dignità, riesce sempre a farsi rispettare. Storia esemplare quella di Marie Reine, perché alla fine ha la forza di cambiare veramente vita e riprendere gli studi universitari interrotti. Finalmente trova chi l'aiuta a sfruttare le sue doti intellettuali e non la sua avvenenza.
Il mio nome è Regina è una storia coinvolgente per l'onestà e la lucidità con cui l'autrice ripercorre e presenta le diverse tappe della sua esistenza e per il coraggio con cui affronta le difficoltà che incontra. È un libro che parla di sbandamenti, dell'ansia causata da una vita precaria e dell'angoscia di sentirsi diversa. A dire il vero, anche in patria Marie Reine si sentiva tale perché era respinta dalle compagne di scuola che vedevano in lei la bambina che era cresciuta godendo di privilegi, anche se poi li aveva perduti. Il bisogno di superare la solitudine, ancora più forte quando ha lasciato il suo paese, spiega la grande attrazione che esercita su di lei il gruppo con cui, in Italia, condivide le esperienze e il lavoro nelle discoteche della provincia intorno a Pescara. Le pagine che narrano della vita dei giovani in provincia ricordano per alcuni aspetti certi racconti di Tondelli, ad esempio la ricerca dell'eccentricità, dello sballo e dello stordimento, il senso dell'appartenenza a una 'tribù, l'abbigliamento come una maschera dietro la quale nascondersi e, nello stesso tempo, sentirsi protagonisti al centro dell'attenzione.
Un aspetto interessante del carattere di Marie Reine, che rivela la sua forza, è la mancanza di vittimismo e la sua capacità di restare regina di nome e di fatto, cioè di mantenere il controllo della situazione anche quando, per lavorare, è costretta a esporsi a sguardi maschili. La sua storia ci porta a riflettere sulla condizione di precarietà economica in cui molte migranti sono costrette a vivere e ad accettare lavori in cui devono sfruttare l'unica risorsa che hanno: il corpo.
Marie Reine, però, ha un capitale invisibile dentro di sé a cui alla fine sa attingere: l'esempio dei suoi genitori. Il padre, (seppur) una figura tragica che sprofonda nell'alcol dopo aver perduto la brillante posizione che si era conquistato, aveva trasmesso alla figlia l'importanza dello studio come mezzo per farsi strada nella vita. La madre, invece, che ha saputo affrontare le avversità con grande forza ed ha saputo opporsi all'infibulazione della figlia, andando contro la tradizione, le ha insegnato a non perdersi mai d'animo. Burkina Faso, scrive Marie Reine, vuole dire 'terra degli uomini coraggiosi' e bisognerebbe aggiungere e delle donne coraggiose, come lei e sua madre.
Questo libro non è solo un'autobiografia che ha permesso all'autrice, con uno sguardo ormai 'dall'esterno' di ricostruire la sua vita, è anche un doloroso percorso di disintossicazione da un passato difficile e un modo per trovare una nuova strada nella scrittura con forza, coraggio e talento.



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